Marco Meneguzzo

dal catalogo dela mostra personale "Cronoestesia", galleria Erha, Milano 1993

Alessandro Traina ha una nostalgia: la nostalgia dell’immagine. Ce lo confermano questi ultimi lavori fatti di carta, di ferro, di plastiche trasparenti, di magneti. All’inizio pensavo fosse la nostalgia di una storia, di una narrazione – e spesso immagine e narrazione vanno di pari passo – ma mi accorgo che si tratta di qualcosa di più preciso: in fondo, l’immagine è più pertinente all’arte di quanto non sia la narrazione, e l’insistita attenzione alla forma dei suoi lavori e nei suoi lavori ci dice che Traina non vuole uscire dal territorio specifico, disciplinare dell’arte. Non ha subito queste tentazioni neppure negli anni passati – Traina espone ormai da un quinquennio - , ma ha sempre perseguito una via difficile, una scultura, una pratica plastica minima senza ubbie neoconcettuali, che spesso mascherano una voglia enigmistica e non enigmatica di raccontare, di mettere alla prova l’intelligenza dello spettatore, fornendo però già la soluzione preconfezionata. In quegli anni, il nostro produceva strutture pesanti, in tubi di ferro piegati e collegati, compressi da fasce nere… Una scultura all’insegna della tradizione del nuovo, si direbbe, se non fosse per quell’aria di “blow up” di ingrandimento esagerato di un gioco di bambini, fatto magari con le graffette, e riportato su scala monumentale: un gioco  che diventa forma, al contrario di quanto solitamente accade, di una forma, cioè, che diventa gioco. E anche in questo, una naturale ritrosia e silenziosità non svela appieno l’artificio, ma lascia che lo sguardo possa decidere su cosa posarsi metaforicamente, se sulla forma o sul gioco che l’ha da lontano generata. Oggi, questa libertà è ancor più accentuata, visto che Traina lascia addirittura alla mano – la mano di chiunque – la possibilità di modificare leggermente la forma del lavoro. Da almeno un paio d’anni i materiali sono cambiati: alla presenza pesante dei tubi di ferro, si è sostituita una griglia leggera che costringe grandi fogli di carta “ da spolvero”, giallastra, secondo ampie pieghe, più o meno regolari; e ancor più recentemente, il foglio di carta – su cui alcuni segni grigi, risultato di un “frottage” eseguito sul pavimento in cemento del proprio studio, simulano una qualche presenza, o il segno di una presenza passata  - è bloccato, piegato secondo forme ondulate da strisce magnetiche, che aderiscono al fondo, formato da una lastra metallica grigia, con la possibilità di muovere le strisce magnetiche, di variare appunta la qualità formale della curva; oppure, in alcuni lavori ancor più rarefatti, una cornice di metallo tiene tesa – sempre con piccoli magneti – un foglio di plastica trasparente, che si attraversa con lo sguardo. Questo processo accentua quel senso di mancanza di nostalgia di cuo si diceva: il “frottage” di un pavimento sembra quasi una scrittura, e comunque, sempre, è il ricordo fantasmatico di qualcuno che vi ha camminato sopra, è un luogo di accadimenti, e al contempo luogo dove si cerca il formarsi di un’immagine, anch’essa fantasma dell’azione che vi si è svolta. Allo stesso modo, la plastica trasparente spinge a cercare un’immagine (che naturalmente non c’è) perché lo sguardo non sopporta il vuoto, lo schermo vuoto: guardare lì dentro è ancor più difficile che guardare in una sfera di cristallo, ma qui come là l’aspirazione è all’immagine, alla visione. Così, Traina ha saputo mettere in relazione una forma e un gesto con una sensazione. La forma, minima, lascia grandi margini allo sguardo, e anzi permette alla mano di modificarla, alla stessa maniera per cui la mente vaga alla ricerca di un’immagine con cui “riempire” quei vuoti insopportabili, quell’”horror vacui” accentuato dall’estrema secchezza dei materiali, delle forme, che talvolta si sarebbe portati a pensare come supporto, come “intorno”. L’opera di Traina non offre appigli, e, paradossalmente, è proprio questa distanza, non partecipazione, mancata offerta di sé che stimola che guarda all’avvicinamento, alla presenza, all’indagine. L’artista dunque si nasconde dietro questa sua costruzione formale, cui non rinuncia mai, e si ha l’impressione che preferisca sempre un segno in meno che uno in più: del resto, non è anche questa un’estrema interpretazione del pilastro moderno de “il meno è più”? 

Alessandro Traina feels a nostalgia: nostalgia for the image. That's confirmed by these last works made by paper, iron, transparent plastic, magnets... Image is pertinent to art more than narration, and his insistent attention to the form of his work and in his works means that Traina doesn't want to be out from the specific and disciplinary art territory... Traina is able to put a shape and an action in touch with a sensation. The shape, minimal, lets look large margins, and even allow to the hand to modify it, in the same way that the mind wanders at the research of an image to fill the umbearable empty spaces... and we have the impression that he prefer anyway a mark less than one more...

Ricostruire

dal catalogo della mostra personale "7 per 1", galleria Spaziotemporaneo, Milano 2007 

I quadri di Alessandro Traina sono sculture. E non solo perché si conosce l’artista, ormai da più di vent’anni, come scultore, ma proprio perché questo ciclo di lavori non costituisce una digressione rispetto alla consueta tridimensionalità, ma - al contrario – di questa sua tridimensionalità ne è l’essenza. Immaginate una superficie, anzi, un foglio (per gli scultori vale poco il concetto: molto meglio parlare in termini concreti, fisici…), tagliatelo in vari pezzi, piegate questi pezzi tra di loro, e poi provate a pensare di stenderli nuovamente, di spiegarli sino a ricostruire quel foglio di partenza. Nei suoi lavori attuali, Traina ci presenta il culmine di questa operazione: tre, quattro fogli piegati su se stessi, e una superficie “in negativo” della misura esatta del piano bidimensionale di partenza: la mente, guidata dall’occhio, riconosce il processo costruttivo, e in questa composizione bianca su fondo nero “vede” in realtà le due polarità, l’inizio e la fine dell’azione, vale a dire la superficie iniziale e l’ipotetica ricostruzione della stessa superficie a partire dal dispiegamento di quei frammenti accartocciati. In questo processo sostanzialmente semplice ma coattivo, cui non si sfugge assolutamente, entrano in campo elementi che al contrario parlano della complessità del percepire, e che Traina ha saputo collegare e “riempire” di tutte le sue precedenti esperienze. Lo scultore ha infatti sempre lavorato sulle superfici duttili – la carta, le fasce di lamiera, i leggeri fogli metallici – che in qualche modo si “autoformano”, prendono cioè la propria forma grazie alla forza di gravità, al proprio peso che li fa piegare naturalmente, senza (o quasi) intervento da parte dell’autore, il quale si limita a evidenziare il processo sostenendo la precarietà del foglio curvato, della superficie che piega verso il basso, attraverso un supporto rigido o con qualcosa – come una calamita sul metallo – che blocca e ferma la caducità della forma in quell’attimo. In questo atteggiamento c’è un’attenzione dinamica – la materia che, lasciata a se stessa, si muove, varia la propria forma -, fermata in una tensione: il lavoro dello scultore è allora quello di arrestare il processo mentre si va completando. E’, cioè, una piccola violenza, il cui oggetto è un semplice foglio, ma sempre di un atto volitivo e “violento” si tratta. Questo, per l’occhio e la mente che guardano, è quasi insopportabile, e anche se tutto si risolve in un sentimento di sottile inquietudine e non di angoscia, né di ansia, né a maggior ragione di paura – come potrebbe far supporre l’insopportabilità di cui abbiamo appena parlato -, nondimeno l’atteggiamento mentale comune è quello della “ricostruzione” di ciò che era, del “ritorno all’ordine” originario, che ci dice che è esistito un momento, uno stato in cui il mondo – rappresentato dal foglio intatto - era tutto a nostra disposizione. Come a dire che noi creiamo l’entropia – frammentiamo l’intero, pieghiamo il dispiegato, “roviniamo” la perfezione -, ma vorremmo poi sempre poter tornare indietro.

 Reconstruction

Alessandro Traina’s pictures are sculptures.  This is not only because the artist has been known as a sculptor for more than 20 years, but because this set of works does not constitute a digression with regards to the consuetudinary three-dimensionality, but “on the contrary” this three-dimensionality is its own essence. Imagine a surface, a piece of paper, (for the sculptor the concept has little value: it is much better to talk in concrete physical terms…), cut it in various pieces, fold these pieces among themselves, and then attempt to think about laying them down again to unfold them to reconstruct the initial sheet. In his current works, Traina introduces the climax of these operations:  three, four sheets folded on each other, and a surface “in negative” of the exact size of the two-dimensional starting surface: the mind, driven by the eye, recognises the constructive process, and in this white compositions on black background it “sees” in reality the two polarities, the beginning and the end of the action, in other words the initial surface and the hypothetical reconstruction of the same surface starting from the unfolding of those curled up fragments.  In this substantially simple but coercive process, from which one could not possibly escape, come into play elements that, on the contrary, speak of the complexity of perception, in that Traina was able to connect and “fill in” all his previous experiences.  The sculptor has in fact always worked on pliable surfaces – paper, strips of tinplate, light metallic sheets – that in some way “self-assemble”,  thus taking their own shape thanks to the force of gravity and to their own weight that allows them to fold naturally, (almost) without intervention from the author, who merely highlights the process by sustaining the precariousness of the curved sheet, of the surface that folds down, through a rigid support or with something – like a magnet on metal – that blocks and stops the transience of the shape in that moment. In this attitude there is a dynamic attention – the substance, left to itself, moves, modifies its own shape -, it is stopped in tension: the work of the sculptor is that of arresting the process during its completion.  That is, in substance, a small violence, in which the subject is a simple sheet, but there is always an element of a wilful act of “violence” in progress. For the eye and the mind that are looking, this is almost unbearable, and although everything is resolved in a feeling of slight uneasiness and not one of anguish, nor of anxiety or, more understandably fear – as you would gather from the unbearableness of which we have just mentioned - nonetheless, the mental common attitude is that of a “reconstruction” of what it once was, of the original “order resettlement”, that tells us that there was a moment, a stage, in which the world – represented by the intact sheet – was entirely at our disposal.  That is to say that we create the entropy – we fragment what is entire, we fold the unfolded, “spoil the perfection” -, but that we would always want to be able to go back.