Lorella Giudici

dal catalogo per la mostra personale "Nastri", Spazio Cesare da Sesto, Sesto Calende (VA) 2006

Il nastro della vita

Una lunga striscia si dipana sotto i nostri occhi con un ritmo zigzagante, una sorta di racconto singhiozzato, dove ogni parte è importante quanto il tutto e dove il senso dell’insieme dà la misura di un’affabulazione dura e alquanto intensa. Un nastro, o, se si vuole, tanti frammenti della stessa lista (comunque, e lo si sottolinea, originati dalla medesima matrice), si sovrappongono, si muovono nello spazio a intervalli diversamente cadenzati, seguendo un tracciato per cui a lunghe pause si alternano scatti improvvisi e imprevedibili. Sono i lavori più recenti di Alessandro Traina, opere in cui si avverte tutta la poesia della sua ricerca, ma anche la nuova direzione che il suo lavoro ha intrapreso. Le “strisce” tridimensionali, cioè modellate con il metallo e rivestite, nella parte più interna, con frammenti di carta colorata tenuti assieme da geometriche piastrine calamitate, sono sinuose e sensuali, si muovono lente e accondiscendono alla luce e allo spazio come regali e leggiadre farfalle. Quel loro sviluppo tridimensionale ha la grazia e l’armonia del nastro che la ginnasta di danza ritmica fa roteare nell’aria con tanta maestria, forse leggermente più rallentato, per il peso oggettivo della materia più che per un bisogno metrico. Quella loro doppia natura, nera e dura dalla parte del metallo e delicata e carezzevole dal lato della carta, conferisce loro una dimensione quasi siddhartiana, in una giusta alchimia di sostanza e apparenza, di spirituale interiorità e giocosa materialità. Con quella loro aggraziata danza, mai casuale o banale, esse sono capaci di mettere a nudo le verità più segrete, di ricucire le parti di un discorso iniziato ormai molto tempo fa, di ricreare la magia di un racconto biografico, quasi intimistico. Nelle composizioni su tavola, invece, il nastro si è appiattito su una superficie profondamente nera e misteriosa. Le pieghe hanno perso le rotondità per lasciare il posto a sagome geometriche e repentini cambi direzionali. La durezza affidata al metallo si trasferisce negli stereometrici perimetri di quelle scie, solidificatesi in bidimensionali e serrati origami, il cui rincorrersi scandiscono ritmi sicuramente più sincopati. Di contro, a questi brani accelerati, fanno eco gli abissali silenzi di uno spazio siderale e senza luce (solo le sagome conservano una luminosità sinistra e lunare), di un’atmosfera impenetrabile e scura. E se, guardando le sagome plastiche, l’impressione è di sentire una musica dal vago sapore straussiano, di fronte a queste forme appiattite, come spianate da un enorme peso, la danza lascia il posto a un ossessivo vagabondare senza tempo e senza meta. E’ come se alla vita dei sensi sia subentrata la lucidità del pensiero cartesiano, o se la consapevolezza del limite abbia preso il posto dell’accattivante fascino della materia. Non è solo una mera trasformazione fisica, tutt’altro, è una svolta sostanziale, è il desiderio di affrontare l‘imponderabile nella sua dimensione più eterna e irraggiungibile. E’ il disperato bisogno di arrestare l’irriverente fluire del tempo con una linearità euclidea che pare quasi metafisica, pervasa com’è di una sottile e attonita inquietudine esistenziale.

 The stripe of the life 

A long stripe unfurls in front of our eyes with a zigzag rythm, a sort of gulping tale, where each part is as fundamental as the whole and where the seen in its entirety gives us measure of a tough and relentless narration. A ribbon, a stripe, or if one desires, many fragments from the same list (but all  being generated from the same matrix) they overlap, and move through space with intervals in different cadenzas, following a route where long pauses are followed by sudden and improvised sprints. These are the latest works of Alessandro Traina, pieces where one senses all the poetry in the artist’s research, and also the new direction his work has taken. These “tridimensional  ribbons”, forged from base metal and covered, in their internal parts, with fragments of colored paper held together by geometric magnetic tiles, are sinuous and sensuous, they move slowly and light and space comply and relate  to these forms like gifts and fluttering moths. Their tridimensional development has all the grace that the gymnast gives her swirling/twirling  ribbon weaving in the air, only that the artist's representation, by the raw materials he uses, slows this rythm. Their double nature, black and hard on the oustide, soft and carressable on the inside, create, in a siddharthian way, the correct alchimy between substance and apparence, internal spirituality and playful materiality. With their graceful dance, never banal or trite, they can capture and  strip the rawest truths, and can mend parts of discussions never finished before, to recreate the intimistic nature of a biographical tale. In the table compositions, the ribbon flattens onto a profoundly black and mysterious surface. The folds have lost their curves to geometric outlines and suddens changes of direction. The hardness entrusted to the iron translates into stereometric perimeters of those trails, solidified in bidimensional and clenched origami, pursuing syncopated rythms . In juxtaposition to these accellerated refrains, the echoes of the silences of the abyss, of a sideral space without light ( only the outlines retain a sinister lunar brilliance), of an inpenetrable dark atmosphere. And if, while observing these plastic forms, one has the impression of a vague straussian melody, in front of these flattened shapes, as if smoothed by enormous weight, dance gives way to an obsessive wandering, without destination or goal. It is as if the life of the 'senses' takes second place to the lucidity of cartesian  philosophy, or as if the knowledge of one's limits took the position of the charming fascination of matter. This is not a mere physical transformation, it's more a change of direction, a desire to ponder the unponderable in its most eternal and inaccessibile dimension. It is the desperate need to stop the irreverent flowing of time with a euclidean linearity which seems almost metaphysical, pervaded  by subtle and amazing existential restlessnes.